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Il Restauro del disco
78rpm, 45rpm, 33rpm, dischi di cera e ebanite
Nel 1877 Thomas A. Edison inventò un fonografo cilindrico con il quale fu in grado di registrare i suoni grazie alla conversione delle vibrazioni dell’aria, emesse dallo sfregamento di una puntina in un solco scolpito su di un foglio in alluminio che ricopriva un cilindro rotante. Nonostante questo dispositivo permetteva già la possibilità di registrare e riprodurre il suono, fu ben presto chiara l'impossibilità di adottarlo su larga scala. Successivamente si pensò di far usare allo stesso fonografo, cillindri ricoperti con una speciale cera; cilindri che ancora oggi sono in parte conservati in archivi pubblici e privati e vengono letti tramite appositi sistemi ottici, al fine di non procurare danni ai supporti. Ma i cilindri di cera presentavano due fondamentali inconvenienti: erano difficili da riprodurre e da conservare. Nel 1887 Emil Berliner inventò il “disco piatto” basato su principi ancora oggi attuali. Anche se il disco introdotto da Berliner poteva essere prodotto su larga scala, offriva in ogni caso ascolti molto scadenti: era rumoroso, il suono era distorto, e assicurava una risposta in frequenze estremamente poco fedele. Quindi il fino al 1925 veniva registrato catturando mediante un corno le variazioni di pressione dell’aria, le quali incanalate verso un diaframma venivano lette da una testina di incisione. Il diaframma trasformava le variazioni di pressione dell’aria in movimenti meccanici paralleli della testina di incisione con la quale si realizzava un solco sulla superficie del cilindro di cera. Nel 1925 il primo microfono, inventato dello stesso Berliner, e il “tubo sottovuoto”, resero possibile la conversione del suono in impulsi elettrici. che quindi potevano anche essere amplificati, e utilizzati per comandare la testina di incisione che scavava la superficie del disco. Questa innovazione aprì la strada a tutte le moderne tecniche di registrazione. Numerose furono le invenzioni successive che si susseguirono negli anni trenta e quaranta. Tra queste risultarono di fondamentale importanza l’introduzione della modulazione multicanale ad opera di Arthur Keller (1929) e (1931) il riproduttore acustico a cristalli da parte di Sawyer. Ben presto il disco analogico divenne un fenomeno di massa. I dischi in ebanite
L’ebanite, una gomma particolarmente dura ed elastica, fu il primo materiale usato da Emil Berliner nel 1887 quando ideò i primi dischi piatti fino ad allora le registrazioni venivano effettuate sui cilindri di cera). Nel 1839 Hancock in Inghilterra e la Goodyear negli Stati Uniti avevano contemporaneamente inventato la vulcanizzazione, il processo con cui il caucciù viene trattato con lo zolfo o con dei composti solforati in varie proporzioni e a differenti temperature. Si riesce in questo modo ad ottenere un prodotto che presenta una maggiore forza ed elasticità rispetto al caucciù di partenza, e che prende appunto il nome di ebanite. I dischi in gommalacca
I primi dischi in gommalacca fecero la loro comparsa a partire dai primi anni del 1900. La gommalacca è una resina prodotta da certi alberi asiatici in seguito alla puntura di un particolare insetto. Questa resina, una volta raschiata via dal tronco e dai rami degli alberi, veniva impiegata come legante nella produzione di plastiche artificiali, come ad esempio l’acetato di cloruro di vinile, che rappresentarono per un certo numero di anni la materia maggiormente utilizzata dai produttori di dischi. I dischi Edison-Diamond
prodotti tra la prima e la seconda guerra mondiale, furono i primi ad essere realizzati utilizzando una plastica completamente sintetica, in particolare un materiale chiamato fenolo. Si tratta di dischi laminati, nei quali entrambi i lati di una spessa e compatta base interna venivano ricoperti da un sottile strato di vernice. La base si ricavava dalla compressione dei seguenti elementi utilizzati nelle proporzioni indicate: farina di legno (58%), alcool etilico modificato (26%), bakelite (fenol-rmaldeide 15%) e nerofumo (1%). La vernice invece, era composta da: alcol etilico modificato (55%) bakelite (38%) e altri elementi meno importanti. I dischi in acetato
Prima dell’avvento dei nastri magnetici, le registrazioni sonore venivano realizzate quasi esclusivamente su dischi in acetato. Di conseguenza, la preparazione chimica di questi ultimi doveva essere un compromesso tra una facile incisione e una buona qualità della registrazione risultante. A partire dagli anni trenta, la maggior parte dei dischi in acetato venne realizzata con una base di alluminio rivestita su entrambi i lati da uno strato di acetato di nitrocellulosa che veniva plastificato con dell’olio di ricino. Le principali varianti a questo metodo di fabbricazione si registrarono durante la seconda guerra mondiale, quando la base dei dischi anziché in alluminio veniva realizzata in vetro per le applicazioni professionali, e in cartone per quelle commerciali destinate all’uso di massa. I dischi in vinile
Il vinile si è fino ad ora dimostrato il più stabile tra tutti i materiali utilizzati nella produzione di supporti per la registrazione analogica dei suoni (nastri magnetici compresi). I dischi in vinile sono composti da cloruro di polivinile (PVC da polyvinyl chloride) e da una piccola percentuale (meno del 25%) di elementi secondari quali stabilizzatori, coloranti e sostanze antistatiche. I dischi in vinile si sono diffusi a partire dalla fine della seconda guerra mondiale (durante il programma V-disc)essenzialmente in due formati: il 33 giri, indicato spesso con la sigla LP (dall’inglese Long Playing) e il 45 giri (il 78 giri cessò definitivamente di essere prodotto nel 1955). Si stima che attualmente i dischi in vinile conservati negli archivi sonori e nelle librerie musicali pubbliche e private siano più di 30 milioni.

Il Restauro
Il disco viene per prima cosa lavato. Lo stato di conservazione dei materiali, il tipo di disco e il numero di esemplari da trattare determinano la scelta del procedimento di lavaggio. Forse la macchina più diffusa è la Keith Monks, che consente il lavaggio di singoli dischi. Nel corso di questo primo trattamento, l'imballaggio originale del disco, spesso in cattivo stato, viene sostituito con materiali che compresi i liquidi per il lavaggio, vengono studiati e scelti con cura, per certificarne l'idoneità per un'archiviazione a lungo termine. Conclusa la fase di lavaggio, il disco passa allo studio audio, dove viene esaminato al microscopio con per rilevare le dimensioni e la forma dei solchi e verificare lo stato fisico della sua superficie. Queste misurazioni e verifiche permettono la scelta della puntina di lettura più adatta. In questa fase sono fondamentali le indicazioni riportate dall'etichetta originale che permettono di impostare l'equalizzazione e la velocità di rotazione corrette. Da ultimo per ottenere un risultato ancora migliore, si ottimizza la geometria del braccio di lettura. Il segnale del giradischi viene convertito da analogico a digitale, e “livellato” in modo da garantire la miglior dinamica ed il miglior rapporto segnale/disturbo. Il segnale digitale viene registrato su di una cassetta DAT. che sarà considerata quale “copia d'archivio” di prima generazione. Ogni copiatura o elaborazione successiva sarà derivata da tale copia. Tutte le fasi del lavoro vengono documentate in modo da permettere anche in futuro la ricostruzione dell'esatto processo di copiatura. Il tempo necessario per copiare un disco 78/1 min può essere quantificato in 3 volte la durata complessiva del disco: in media quindi, considerando una durata di 8 min per entrambi i lati, si impiegano 24 minuti di lavoro  
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